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Pubblicato inSalute

Glisofato, fa davvero male alla salute?

Uno dei prodotti più usati in agricoltura è al centro del dibattito sulla sua possibile tossicità. Le evidenze scientifiche mostrano che gli impatti negativi di questa sostanza esistono eccome, anche se in Italia i rischi sono piuttosto bassi. L’approfondimento della nutrizionista

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In questi giorni si sta discutendo molto riguardo la possibile cancerogenicità  e tossicità del glifosato (vedi approfondimento sul Corriere della Sera) e della sua presenza in alcuni prodotti che sono alla base della dieta mediterranea quali cereali, frutta e verdura.  Le dichiarazioni fornite dalle grandi organizzazioni internazionali sulla capacità tossiche di questa sostanza delineano pareri contrapposti, infatti l’Efsa (autorità per la sicurezza alimentare europea) ha smentito il parere dello Iarc (agenzia internazionale per la ricerca sul cancro), secondo la quale il diserbante è ritenuto “potenzialmente cancerogeno per l’uomo”, in particolare il sospetto era che causasse il linfoma non Hodgkin e che danneggiasse il DNA dell’uomo. Oggi l’Efsa dice esattamente il contrario, sostenendo che: “È improbabile che il glifosato sia genotossico o che rappresenti una minaccia di cancro per l’uomo”.

I livelli massimi di residui (LMR) nel cibo, per il glifosato e i suoi derivati, sono stati fissati dalla commissione del Codex Alimentarius nel 2006, ma, alla luce delle evidenze scientifiche sugli impatti che racconteremo più oltre in questo articolo, è necessario procedere a una nuova valutazione dei LMR per garantire un’effettiva sicurezza degli alimenti.

A favore di noi italiani bisogna sottolineare che la produzione nazionale ha degli standard di controllo elevati, che permettono di monitorare e mantenere la quantità di glifosato utilizzato al di sotto dei range massimi di riferimento.
In questo acceso dibattito tra potenze internazionali e dati scientifici allarmanti trova spazio l’agricoltura biologica che può rappresentare una buona soluzione a questo problema, in quanto esclude totalmente l’uso di sostanze di natura chimica di sintesi, impiegando solo prodotti di origine animale o vegetale.

La Commissione europea e più precisamente la commissione permanente del Paff (comitato per le piante, gli animali, gli alimenti e i mangimi) rifacendosi anche al parere della propria autorità di settore tra cui l’Efsa, dovrà decidere presto se mantenere per altri 15 anni o togliere il glifosato dalla lista delle sostanze approvate nell’Unione.

Cerchiamo ora di fare chiarezza sulla natura di questo composto chimico e sulle sue potenziali attività tossiche per l’uomo. Il glifosato è un diserbante e si classifica come un erbicida non selettivo o totale, usato come erbicida da parte della Monsanto Company nel 1974 (USPTO, 1974) ed è una a una delle sostanze più vendute a livello nazionale (ISPRA, 2011), con una media di oltre 1500 tonnellate all’anno (2004–2008).

Durante il corso degli anni, dalla sua commercializzazione, sono stati condotti molti studi per verificarne la tossicità e la possibile presenza nei cibi coltivati in campi trattati con glifosato; a conferma di questo la Soil Association nel 2011 ha dimostrato che il glifosato era presente in un quarto di tutto il pane commercializzato in Gran Bretagna e più recentemente, tramite un’inchiesta portata avanti da una rivista tedesca, che ha fatto un test comparativo per rilevare la quantità di glifosato su derivati del frumento e altri cereali, è stato dimostrato che il glifosato era presente in 10 prodotti su 14. Tale dato non va trascurato, soprattutto se si considera che l’Italia è uno dei paesi europei che consuma il maggior numero di cereali e derivati e che è in testa alle classifiche del consumo pro-capite di pasta, con una media di 25 kg all’anno, aggiungendo inoltre che, come dichiarato da Coldiretti, un pacco di pasta su tre, consumato in Italia, è prodotto con grano straniero.

Tra i maggiori produttori di fertilizzanti contenti il glisofato troviamo, come già riportato in precedenza, la Monsanto la quale ha sempre classificato, nelle pubblicità in cui promuoveva il roundup contenente glifosato, questo prodotto come “biodegradabile e rispettoso dell’ambiente”, tale appellativi gli sono costati una condanna, per ben due volte, per pubblicità ingannevole: la prima, nel 1996, negli Usa e la seconda in Francia dall’Alta Corte, nel 2007, dove i giudici hanno espressamente dichiarato che la definizione biodegradabile utilizzata dall’azienda era fallace.

Per quel che invece riguarda l’industria farmaceutica si afferma che il glifosato è minimamente tossico per gli esseri umani, ma molte ricerche dimostrano il contrario; infatti il glifosato risulta essere tossico a dosi minime e gli esseri umani sono regolarmente esposti a piccole quantità di residui di glifosato in alimenti di prima necessità come pane, cereali e lenticchie. Bisogna mettere in luce anche le conseguenze, riportate dalla letteratura, che derivano dall’esposizione a formulazioni a base di glifosato; i principali sintomi prevedono occhi gonfi, intorpidimento del viso, bruciore e/o prurito della pelle, vesciche, rapida frequenza cardiaca, elevata pressione sanguigna, dolori al petto, congestione, tosse, mal di testa e nausea (Cox, 2004). Anche il nostro microbiota viene negativamente modificato da questo composto, infatti il batterio intestinale Lactobacillus è influenzato negativamente dal glifosato (Shehata et al., 2013) e le sue popolazioni risultano impoverite nei malati di celiachia (Di Cagno et al., 2011). Questo organismo è in grado di fissare il selenio inorganico in forme organiche, più biodisponibili, come selenocisteina e seleniometionina (Pessione, 2012) e l’effetto deleterio del glifosato sui batteri benefici porterebbe a un impoverimento nella fornitura di selenometionina e selenocisteina. La selenocisteina è presente nel centro catalitico degli enzimi che proteggono la tiroide dai danni dei radicali liberi (Triggiani et al., 2009) che porterebbero ad apoptosi e a risposte autoimmuni (Tsatsoulis, 2002).

La diminuzione della metionina (composto organico, amminoacido solforato costituente delle proteine animali) da parte del glifosato (Nafziger et al., 1984) complica ulteriormente questo preoccupante quadro. Le specie di Lactobacillus e Bifidobacterium hanno la capacità di biosintetizzare l’acido folico, così la loro distruzione da parte del glifosato potrebbe contribuire a portare a una carenza cronica di acido folico (Rossi et al., 2011). Inoltre il glifosato è noto per inibire gli enzimi del citocromo P450 che agiscono nella detossificazione di tossine ambientali, nell’attivazione della vitamina D3, nel catabolismo della vitamina A e nel mantenere la produzione di acidi biliari e fonti di solfato nell’intestino, inibendo così i processi di disintossicazione naturale. A causa del blocco della funzione degli enzimi di detossificazione si può anche determinare l’accumulo di ammoniaca, un sottoprodotto creato quando alcuni microbi decompongono il glifosato, che può portare a infiammazioni del cervello associate all’autismo e al morbo di Alzheimer (Samsel & Seneff, 2013a).


Tutte queste alterazioni possono contribuire alla genesi della maggior parte delle malattie e condizioni associate a una dieta occidentale, comprendendo disturbi quali la celiachia (Samsel & Seneff, 2013b, vedi figura 3), l’obesità (Samsel & Seneff, 2013), il diabete e altre patologie dell’organismo come malattie cardiache, depressione, autismo (Shelton et al., 2012; Samsel & Seneff, 2013), sterilità, cancro e morbo di Alzheimer (Samsel & Seneff, 2013a). Il glifosato può anche interferire con la frammentazione delle proteine complesse nello stomaco umano lasciando grandi frammenti di cereali nell’intestino, i quali innescano una risposta autoimmune portando a difetti nel rivestimento del piccolo intestino che sono caratteristici dei pazienti celiaci (Samsel & Seneff, 2013).


Carenze di ferro, cobalto, molibdeno, rame e altri metalli associate alla celiachia, possono quindi essere attribuiti alla forte capacità del glifosato di chelare questi elementi, mentre le carenze di triptofano, tirosina, metionina e seleniometionina, comuni nella malattia celiaca, possono essere associate alla nota deplezione di questi aminoacidi sempre da parte del glifosato (McDuffie et al., 2001; Hardell et al., 2002; De Rooset al., 2003).

Un altro fattore che non deve lasciare indifferenti è quello legato all’incremento dell’utilizzo di tecniche agricole, come la pratica di essiccazione prima del raccolto, che hanno portato all’aumento del composto tossico negli alimenti. L’Usda (US Department of Agriculture), nel riepilogo annuale 2011, ha pubblicato i dati relativi ai residui di glifosato rinvenuti negli alimenti negli Stati Uniti: nel 90,3% dei campioni di soia destinati all’alimentazione umana è stato trovato glifosato, mentre il metabolita ampa, suo prodotto di degradazione, è stato registrato nel 95,7% dei campioni. 

Bibliografia

Cox C., 2004: Glyphosate. Journal of Pesticide Reform, 24(2).

Glass R.L., 1984: Metal complex formation by glyphosate. Journal of Agricultural and Food Chemistry, 32:1249-1253.

Hardell L., Eriksson M., Nordström M., 2002: Exposure to pesticides as risk factor for non-Hodgkin’s lymphoma and hairy cell leukemia: Pooled analysis of two Swedish case-control studies. Leuk. Lymph., 43:1043-1049.

Krüger M., Schrödl W., Neuhaus J., Shehata A.A., 2013a: Field investigations of glyphosate in urine of Danish dairy cows. Journal of Analytical Toxicology, 3(5): 100-186.