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Pubblicato inSalute

Innovazione in sanità: e se cominciassimo a testarla?

Niccolò Cusumano della Bocconi interviene nella discussione lanciata da Luciano Balbo: “Sperimentiamo nuovi modelli di business all’esterno e per poi proporli al pubblico una volta che se ne sono misurati gli effetti”

Luciano Balbo nel suo post – giustamente – invoca non solo un ripensamento, ma una rivoluzione culturale nel sistema sanitario nazionale (SSN): riportare il paziente al centro e intorno ai suoi fabbisogni riprogettare, ricostruire i processi di erogazione dei servizi sanitari. Servizi che oggi troppo spesso sono pensati partendo dalla prospettiva dell’erogatore e non del destinatario.

Le linee su cui muoversi sono chiare e vengono richiamate nel post: promuovere i servizi territoriali e la prevenzione, razionalizzare la struttura ospedaliera. Un uso più spinto delle tecnologie della comunicazione (dalla gestione delle visite, invio referti, alla telemedicina e i big data) dovrebbe consentire un uso più efficiente delle risorse e migliorare la capacità di risposta e previsione del sistema sanitario.
Come avviare questa rivoluzione culturale? Il post non invoca purghe maoiste, ma un’iniezione massiccia di imprenditorialità e innovazione alimentate da una sana concorrenza nel mercato.
Per fare questo, secondo Balbo, occorrerebbe scindere la funzione “assicurativa” – cioè la raccolta e il finanziamento del sistema sanitario – che resterebbe di matrice pubblica preservando così l’universalità dell’accesso alle cure, dalla funzione di erogazione del servizio. Il pubblico dovrebbe inoltre valutare le prestazioni abbattendo quelle asimmetrie informative che caratterizzano la sanità e che, come nel caso statunitense, possono generare una spirale al rialzo dei costi.
Il privato già oggi è coinvolto in diversa misura nella gestione anche di servizi core del SSN. La vera distinzione non sta però nella “quantità” di servizi esternalizzati, ma nell’effettivo trasferimento della responsabilità di progettare il servizio.

Tre sono le principali forme di coinvolgimento/delega: appalto, PPP, accreditamento.
1. In un appalto tradizionale il privato è chiamato a presentare una proposta in conformità a un capitolato prestazionale definito dall’Amministrazione. Nel caso migliore la stazione appaltante può esprimere il proprio fabbisogno in termini di requisiti funzionali e di risultato, lasciando al fornitore l’identificazione delle soluzioni tecnico-operative.
Nella realtà questi spazi di libertà, che pure la norma consente, raramente vengono colti e le amministrazioni tendono a dettagliare eccessivamente le loro richieste, ingessando il contratto e di fatto spingendo la controparte a proporre soluzioni standard. Oppure si tende a focalizzarsi eccessivamente sulla variabile del prezzo, che è un indicatore di breve periodo senza considerare il risultato economico di medio/lungo periodo.
In ogni caso in un appalto il privato resta un fornitore/esecutore remunerato sulla base delle prestazioni eseguite. Non vi è trasferimento del rischio (al di là dell’inadempienza alle norme contrattuali) né effettiva responsabilizzazione sul risultato (l’importante è che si siano eseguite le prestazioni come da contratto, se queste non danno i risultati sperati il problema è dell’amministrazione).

2. Una soluzione più avanzata è il cosiddetto Partenariato Pubblico Privato – PPP – in cui la Pubblica Amministrazione delega al privato non soltanto l’esecuzione, ma anche la sua progettazione e il finanziamento. Il privato si assume più rischi rispetto a un appalto tradizionale e la sua remunerazione deve, perché si parli effettivamente di PPP, essere legata al risultato conseguito.
Il PPP in Italia è stato prevalentemente utilizzato per effettuare investimenti in infrastrutture nonostante i rigidi vincoli di bilancio. Il risultato è stato porre molta enfasi sul contenitore fisico e meno sulla gestione dei servizi che vi sono svolti all’interno, o alla futura evoluzione del sistema sanitario.
Nelle operazioni di PPP i servizi sanitari inoltre sono rimasti di appannaggio del pubblico, mentre il privato è stato chiamato a gestire i servizi non sanitari (come le manutenzioni, servizio calore ed energia, mensa, lavanolo, pulizie).

3. A un grado più estremo di esternalizzazione abbiamo i regimi di accreditamento che però tendono a replicare di fatto l’organizzazione del servizio gestito dal pubblico.
Il privato è quindi già molto coinvolto, tuttavia, come peraltro denunciato nel post del 30 ottobre, questo modello di outsourcing non ha portato all’innovazione, ma a ha perpetrato modalità di gestione tradizionali.
Il tema quindi diventa come introdurre l’innovazione nella sanità – pubblica – e più in generale in settori dove la presenza della Pubblica Amministrazione è molto forte.
Non esiste una soluzione semplice a questo tipo di equazione a più variabili tra cui: la gestione del personale (come conciliare magari nella stessa struttura personale con contratti diversi? O come chiedere al fornitore privato di coordinare personale pubblico), i vincoli di bilancio, le regole sugli appalti e in generale le norme specifiche di settore.
Concentrandosi sulle modalità di acquisizione serve un salto di qualità nel rapporto pubblico-privato in cui si inizi a ragionare in termini di output e outcome, più che sul rispetto delle procedure o sull’illusione che il controllo si faccia disciplinando minuziosamente i processi. Questo approccio poteva forse funzionare in passato in un ambiente meno dinamico o con una forte capacità progettuale pubblica. Il costante disinvestimento nelle competenze del personale presente nelle ASL e AO da un lato e la necessità di trovare soluzioni out of the box rendono questo approccio inefficiente e inefficace.
Servono quindi da un lato un sophisticated buyer, dall’altro un sophisticated seller capace di proporre soluzioni innovative e di elevata qualità.
Il problema è che l’innovazione va testata e sperimentata. Le sperimentazioni gestionali avviate negli anni passati non hanno portato ai risultati conseguiti screditando non solo il modello, ma l’idea stessa di sperimentazione. Non aiuta un sistema appaltistico che tende a privilegiare gli insider piuttosto che gli outsider: la partecipazione alle gare richiede il possesso di requisiti in termini di fatturato, esperienza.
Se la sperimentazione non può avvenire nel perimetro pubblico occorre sviluppare e testare nuovi modelli di business all’esterno e poi proporli al pubblico una volta che se ne sono misurati gli effetti. In questo senso la nuova direttiva 24/2014/EC sugli appalti potrà dare un impulso utile estendo a 750.000€ la soglia per i servizi sociali e introducendo la possibilità di definire procedure ad hoc più snelle per questo settore.

 

Foto © raja4u/ Freeimages