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Pubblicato inSalute

Per un medico gli esami – e lo studio – non finiscono mai

La scienza progredisce. E la salute? I progressi della conoscenza ci aiutano davvero a far star bene i nostri assistiti? Dialogo con Claudio Rugarli, docente di Medicina interna, massimo studioso di questi temi in Italia

Parliamo di conoscenza in medicina. Ci porremo alcune domande circa cosa sappiamo, cosa dovremmo sapere e cosa possiamo fare per utilizzare le conoscenze che abbiamo in medicina.

Ne sappiamo davvero tanto dei malati? I progressi della conoscenza, anche grazie alle nuove tecnologie, ci aiutano davvero a far star bene i nostri assistiti? Come mai vengono documentati così tanti errori medici? E come mai le malattie non diminuiscono?

rugarliNe parliamo con una persona che è, per gli addetti ai lavori, “la conoscenza”, una persona che fa dello studio un’arte e che ha appassionato migliaia di studenti, quegli studenti che lo hanno ascoltato parlare della sua materia, la medicina interna, durante le sue lezioni: Claudio Rugarli.
Professore Emerito Presso l’Università Vita salute del San Raffaele di Milano, autore di un libro di medicina interna, il più importante e prestigioso, quello su cui tutti i medici hanno studiato.
Cercheremo di capire cosa le scuole di medicina dovrebbero insegnare e come effettivamente è l’insegnamento di questa professione in Italia.
Dobbiamo distinguere fra nozioni singole acquisite con l’anamnesi, l’esame fisico e le indagini strumentali e di laboratorio, che, per analogia con la struttura della materia, chiamo conoscenza atomica e la loro integrazione, che, estendendo l’analogia, può essere considerata corrispondente alla formazione di molecole, ed è in realtà nozionistica, ma non per questo meno importante. Questo tipo di conoscenza sta aumentando esponenzialmente e non c’è mente umana che possa trattenerla tutta. Ha bisogno di aiuto. Lo si trova con successo, l’aiuto, e con facilità nelle banche dati esterne, come il web. Diverso è invece il ragionamento sulla conoscenza integrata: quella che solo la mente umana può sviluppare, quella che permettere, grazie ad una particolare forma di ragionamento, il metodo clinico, di arrivare a formulare un’ipotesi e a comprendere fino in fondo il malato. Questa conoscenza non può essere appresa come quella che ho definito atomica, ma va insegnata, cosa che comunemente non viene fatta ed è la principale sfida della scuola di medicina, oggi.
È per questo“, aggiunge Rugarli,  “che si deve puntare a corsi di medicina che favoriscano i momenti in cui si insegnano le regole per applicare questo ragionamento e per allenarlo sul progredire della conoscenza atomica nel corso di studi.


C’è poi un altro aspetto che le scuole di medicina non devono trascurare, cioè di partire effettivamente dall’inizio nel racconto della medicina: cosa è la salute e cosa è la malattia? E questo è un po’ un tema andrebbe condiviso sempre anche con i malati.”
La malattia che si diagnostica non è una realtà oggettiva, ma è una costruzione intellettuale derivata dalla nosologia, ossia dalla classificazione delle malattie in insiemi di ammalati, accomunati, per ragioni pratiche, da particolari criteri descrittivi assunti a priori. La diagnosi, la definizione di malattia, è una convenzione. Questo rende la malattia che si diagnostica una realtà soggettiva, mentre è oggettiva solo la condizione di quella specifica persona che ci si trova davanti in quel momento.
Questo crea una serie di fraintendimenti: anche nel paziente, che oggi si aspetta sempre una risposta o tutto o nulla dalla scienza. Non esiste più il paradigma secondo cui il paziente crede nella dimensione magica della medicina, ma crede di aver diritto all’infallibilità della scienza. Non è però così, anche e soprattutto per quanto esposto sopra“.
La scienza deve dare certezze, questa sembra l’approccio dei pazienti. Talvolta lo è anche quello dei medici, soprattutto quelli inesperti che cercano di arroccarsi dietro la conoscenza atomica per vincere le proprie ansie di adeguatezza.
Ma la realtà è in larga misura casuale, quindi imprevedibile. E questo ci rende fallibili.
Esiste quindi un tema relativo al rapporto medico paziente, anche quando si parla di conoscenza. Perché è attraverso il dialogo che strutturiamo i primi passi della conoscenza integrata, quella che ci permette di ordinare e utilizzare la conoscenza atomica.
Quindi tutto parte nell’anamnesi“, spiega Rugarli, “ma non solo, è parlando con il paziente che vinciamo le sue paure, è cercando di spiegare quale è il suo problema che lo rassicuriamo, non solo quando abbiamo buone notizie, ma anche quando gli spieghiamo quelle cattive. È importante, ma a questo punto anche doveroso, non essere lapidari, mai, davanti ai numeri. Questi, per esempio, quando parlano di sopravivenza indicano non medie, ma mediane. La ragione è che i tempi di sopravvivenza non hanno una distribuzione normale e che esistono casi di sopravvivenza particolarmente breve o particolarmente lunga. Questo permette sempre di dare speranze ai pazienti affetti da malattie definite a prognosi infausta. Può darsi che essi costituiscano proprio quei casi di sopravvivenza eccezionalmente lunga e nel frattempo è lecito sperare che vengano trovate cure migliori. Senza almeno un barlume di speranza è difficile affrontare il peso di una malattia grave

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Quando invece parliamo delle scuole e di come dovrebbe essere un buon docente al Prof. Rugarli vengono in mente due parole: “un buon metodologo ed un animatore, ecco come definirei un buon professore. Perché un medico è uno studente a vita e non si fermerà di certo ai sei anni di medicina il suo percorso di studi, continuerà sempre.

Quindi, i professori devono essere persone che animano un certo di tipo di atteggiamento entusiastico verso la conoscenza ma, anche, cultori del metodo con cui, per la vita, i futuri medici sapranno utilizzare razionalmente le conoscenze atomiche che non smetteranno mai di studiare.
Purtroppo il sistema di reclutamento dei docenti in Italia, per come congegnato non tutela in modo ottimale la scelta. “Il sistema dei concorsi pubblici è teoricamente buono, ma non garantisce che coloro che conferiscono l’idoneità a un docente o che lo chiamano nella loro facoltà impegnino pienamente la loro responsabilità. Possono esserci favoritismi o manifestarsi inadeguatezze, ma la risposta sarà: “ha vinto un concorso!” Solitamente esiste una tendenza a favorire i candidati provenienti dalle stesse sedi che intendono chiamare i nuovi docenti. Questo provoca distorsioni. Consapevole di questo pericolo, quando varò la sua proposta di riforma dei concorsi universitari l’allora ministro Berlinguer stabilì che l’idoneo a un concorso non potesse essere chiamato nella stessa sede che lo aveva bandita. Questa, che fu chiamata la clausola dell’esilio, fu rapidamente bocciata dal parlamento, portando al completo fallimento del nuovo sistema di concorsi”.
Possiamo citare invece la Germania come alternativa più convincente. Una particolarità infatti del modello tedesco, volta a contrastare il localismo e il nepotismo dei singoli atenei, è rappresentata dal divieto di chiamata di un professore da parte dell’università di provenienza, derogabile solo in casi eccezionali. “Questa regola ha come obiettivo quello di tutelare il sistema universitario e la sua qualità stabilendo un maggior controllo sulla nomina dei professori e ostacolando le carriere costituite per cooptazione locale. E“, aggiunge il professor Rugarli, “questo lo dico io che ho fatto tutta la mia carriera a Milano. Spero perciò di essere giudicato da quello che ho fatto una volta diventato professore , piuttosto che dalla circostanza che lo sono divenuto con un sistema difettoso. Credo che le opinioni che sembrano giuste dovrebbero essere sostenute indipendentemente dalle vicende personali”.